
Il Carnevale di Venezia
come lo conosciamo oggi è solo frutto della fantasia dell’uomo e della sua
necessità di rendere tutto ciò che può un business e, in un secondo momento,
anche una vera e propria espressione artistica. Il Carnevale al tempo della
Serenissima non era così.
Persino il concetto del
mascherarsi era diverso; oggigiorno ci si maschera per distinguersi, per vedere
chi riesce a creare o indossare il costume più originale e più diverso dalla
normale concezione di travestimento. La florida Venezia di un tempo, invece,
aveva istituito il carnevale sì come momento di festa, ma soprattutto come
periodo nel quale si andava ad appianare le differenze tra le diverse caste
sociali e le maschere erano fondamentalmente due: la bianca Baùta, e in un
secondo momento, anche la Moreta (una maschera nera nata in Francia, indicata
per i lineamenti femminili, che prese piede presto anche a Venezia).

Venezia in quel periodo
si colorava di bianco. Ognuno indossava la maschera, fosse esso povero, schiavo,
nobile o del ceto medio non faceva differenza; tutti avevano la possibilità di
vivere fuori dagli schemi sociali per un po’, respirare a pieni polmoni quella
sensazione di libertà, anche di pensiero, che ha sempre caratterizzato Venezia
nei secoli.
Piazza San Marco
diventava la sala da ballo più grande del mondo, ricca di spettacoli e di
musica, e di gente che vi ci si riversava con l’unico intento di divertirsi
senza il minimo pensiero. Ci si salutava con un “Buonasera signora maschera”,
proprio per sottolineare la poca importanza che si dava al volto celato dalla bauta, che in quel momento poteva
nascondere un esponente del consiglio dei Dieci, oppure un semplice membro
della servitù.
C’è anche da dire che, ai
tempi della Serenissima, il carnevale non durava così poco come ai nostri
giorni, ma ben sei settimane, iniziando 26 dicembre e protraendosi fino al
mercoledì delle ceneri; vero è anche che molti iniziavano i festeggiamenti già
agli inizi di ottobre!
Venezia era conosciuta
non solamente per le proprie abilità in mare e nel commercio, ma soprattutto
per il suo libero pensiero, per la totale indipendenza dal clero e per le sue
feste, i cui racconti facevano il giro d’Europa. Lo stesso Enrico III di
Valois, prima di raggiungere Parigi dalla Polonia per l’incoronazione, decide
di fare una “breve” deviazione per Venezia per godersi la frenesia e l’animo
festaiolo veneziano, che poi il Doge riuscì pure a stabilire un accordo
politico è un altro paio di maniche.

Delusi? Eppure non
dovreste, se solo ci pensiamo un attimo i nostri avi ci avevano visto lungo,
anzi, oserei dire che ci vedevano anche meglio di noi. Il Carnevale veneziano
così com’è nato è il simbolo dell’uguaglianza, la massima espressione del
rispetto reciproco e della voglia di rompere gli schemi che ci vengono imposti
dall’esterno. Non metto in dubbio che vedere vestiti meravigliosi girare per le
calli sia un’esperienza unica, io stessa sogno da una vita di indossare un
vestito d’epoca, ma il senso ora qual è? L’ennesimo motivo di vanità, la voglia
di sembrare diversi per un giorno da quello che rappresentiamo ogni giorno? E
se invece cominciassimo a percepirla come un’opportunità per sentirci
semplicemente liberi di essere noi stessi senza dover guardare per forza alla
nostra destra e giudicare il nostro vicino, non sarebbe meglio?
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